City Bites: Saigon

Saigon by night

Storia, identità e sapori della metropoli vietnamita

La prima cosa che colpisce di Saigon — o Ho Chi Minh City, se preferite — è il perenne ronzio di sottofondo, che a tratti si trasforma in una vera e propria cacofonia, generata dai motorini che invadono le strade come uno sciame di calabroni impazziti. Tutti sembrano avere un motorino: dagli studenti, che con le loro uniformi attraversano la città da un capo all’altro, ai rider che rispondono freneticamente alle migliaia di richieste quotidiane — quasi tutte legate al cibo — fino alle office ladies, che cavalcano le due ruote in tacco alto, mise impeccabile ed eleganza innata, con la sicurezza di centauri navigati. E poi ci sono le nonne: nate sotto i coloni francesi, cresciute tra guerre e rivoluzioni, oggi gestiscono affari o impartiscono istruzioni ai nipoti via cellulare, con lo stesso tono fermo e diretto, indossando il loro nón lá e attraversando il traffico impazzito con un’invidiabile noncuranza.

Saigon è una città stratificata, contraddittoria, in continuo movimento. Nonostante il nome ufficiale sia oggi Ho Chi Minh City, gran parte dei suoi abitanti — e quasi tutti coloro che vi arrivano da fuori — continuano a chiamarla semplicemente Saigon, non solo per una questione di abitudine, ma come una forma di resistenza gentile, un modo per conservare l’identità di un luogo che ha attraversato colonizzazioni, guerre e rivoluzioni senza mai perdere del tutto la propria anima.

Il cibo, come spesso accade in Asia, è molto più di un bisogno quotidiano: è linguaggio, memoria, geografia e storia. A Saigon tutto questo si intreccia in una cucina che è allo stesso tempo regionale e globale, popolare e sofisticata, immutabile e mutevole. I piatti raccontano della fertilità del delta del Mekong e delle influenze cinesi, khmer, francesi e americane. Raccontano della guerra e della fame, della ricostruzione, della modernizzazione, e di una creatività gastronomica che ha pochi eguali nella regione.

In questo viaggio ci muoveremo tra quartieri, epoche e sapori, per osservare come la capitale economica e culturale del Vietnam del Sud abbia costruito — e continui a costruire — una propria identità attraverso il cibo. Non cercheremo la cartolina, ma la complessità; non l’immagine esotica, ma la realtà viva e sfaccettata di una città in cui il passato non è mai completamente archiviato e il futuro si presenta ogni giorno con una nuova faccia.

Saigon, città di memorie e metamorfosi

Non è facile orientarsi tra le anime di Saigon. Ci si muove tra quartieri che sembrano appartenere a epoche diverse, tra i resti della dominazione francese e le torri di vetro della nuova economia, tra caffè coloniali e coworking iperconnessi. Ma dietro questo mosaico urbano si nasconde una storia molto più antica, fatta di stratificazioni culturali che risalgono a secoli prima della colonizzazione. Tra tutte, la più profonda è forse quella lasciata dalla Cina, che per più di mille anni ha esercitato un’influenza continua e ambivalente sulla cultura e sulla cucina vietnamita.

Lungo la sua storia, questo paese ha subito numerose dominazioni e influenze esterne, e tra queste la presenza cinese, dal 111 a.C. al 938 d.C., ha lasciato segni profondi: nelle istituzioni, nei rituali religiosi, nell’uso della scrittura e, naturalmente, nella cucina. Eppure, nonostante una lunga e capillare dominazione, il popolo vietnamita ha saputo mantenere una propria identità distinta, costruita in parte proprio attraverso la differenza. Il cibo, come spesso accade in Asia, è stato uno dei terreni su cui questa differenza si è giocata e ha resistito.

Molte tecniche — come la cottura al vapore, l’uso del wok, dei noodles e della soia — derivano dalla tradizione cinese. Ma la cucina vietnamita ha sviluppato una propria voce: più leggera, più fresca, spesso più profumata. Dove il modello cinese tende alla concentrazione dei sapori, alla cottura lunga e alla ricchezza di condimenti, quella vietnamita predilige l’equilibrio, l’acidità leggera, la presenza di erbe fresche e verdure, il contrasto tra crudo e cotto. Si tratta di una cucina capace di raccontare non solo ciò che è stato ereditato, ma anche ciò che è stato rielaborato e reso unico.

Nel Sud del paese — e quindi a Saigon — tutto questo si amplifica. Il clima tropicale e la fertilità del delta del Mekong hanno reso disponibile una varietà straordinaria di ingredienti: pesci d’acqua dolce, crostacei, frutti tropicali, riso in abbondanza. Le influenze delle minoranze etniche, delle comunità cinesi del quartiere di Chợ Lớn e delle tradizioni contadine del delta si fondono in un universo gastronomico straordinariamente dinamico. È una cucina che riflette l’apertura e la resilienza di un popolo che ha sempre dovuto adattarsi, senza mai cedere completamente la propria voce.

Saigon, in questo senso, è una chiave di lettura del Vietnam intero. Una città che ha imparato a sopravvivere e a reinventarsi, anche attraverso il cibo. E che ancora oggi, nelle sue strade, tra un piatto di hủ tiếu e una tazza di cà phê sữa đá, continua a raccontare — con umiltà e fermezza — chi è stata, chi è, e chi vuole diventare.

La cucina del Sud del Vietnam: dolcezza, freschezza, stratificazione

Quando si parla di cucina vietnamita, spesso si tende a farne un discorso unitario. In realtà, esistono differenze profonde tra le cucine del Nord, del Centro e del Sud del paese, determinate da fattori storici, climatici, geografici e culturali. La cucina del Sud, che ha il suo epicentro proprio a Saigon, è probabilmente la più varia, accessibile e istintivamente seducente delle tre. È una cucina generosa, solare, che riflette la ricchezza agricola del delta del Mekong e una certa inclinazione all’equilibrio morbido dei sapori.

Nel Sud, il gusto dolce è più presente e marcato che altrove. Lo zucchero di palma, il latte condensato, il caramello di cocco, le marinature zuccherine sono parte integrante di molti piatti, ma mai invadenti: si accompagnano a note salate, acide, fermentate, costruendo una complessità che si esprime soprattutto nei contrasti e nel bilanciamento dei sapori. La dolcezza è spesso usata anche nei piatti salati — come nel thịt kho tàu, maiale caramellato cotto lentamente in salsa di pesce e zucchero, o nel canh chua, una zuppa agrodolce con pesce del Mekong, ananas, pomodori e tamarindo.

Questa inclinazione alla rotondità del gusto contrasta con la sobrietà più asciutta della cucina del Nord, dove il clima più freddo e una tradizione più vicina alla cultura cinese hanno portato a sapori più netti e contenuti. Il phở di Hanoi, ad esempio, è più semplice e rigoroso rispetto alla versione saigonese, che tende a essere più ricca, più speziata, e spesso accompagnata da una varietà di erbe fresche e condimenti aggiuntivi. Anche il bún chả — piatto tipico del Nord a base di carne di maiale grigliata, vermicelli di riso e salsa di pesce — ha un’impostazione più minimalista rispetto alla costruzione a più strati di molti piatti del Sud.

La freschezza è l’altra parola chiave. In ogni piatto del Sud c’è una manciata di erbe fresche, un lime spremuto all’ultimo, delle verdure crude a fianco del cotto. La menta vietnamita (rau răm), il basilico asiatico, la perilla, il coriandolo, la citronella: tutte queste erbe non sono guarnizioni, ma vere e proprie componenti dell’esperienza gustativa. Vengono usate per equilibrare la grassezza, per rinfrescare il palato, per aggiungere note verdi e vivaci a piatti spesso molto saporiti.

Ma ciò che forse colpisce di più è la stratificazione. I piatti del Sud non sono mai monodimensionali: hanno livelli, texture, temperature diverse, spesso nella stessa ciotola o nello stesso piatto. Pensiamo a un bún thịt nướng, ad esempio: spaghetti di riso freddi, carne di maiale grigliata e caramellata, arachidi tostate, cipolla fritta, erbe fresche, verdure sottaceto, tutto legato da una salsa agrodolce a base di nước mắm. È una costruzione, quasi un microcosmo. E il bello è che ogni morso può cambiare proporzione, risultare leggermente diverso dal precedente.

La cultura alimentare del Sud è profondamente legata alla convivialità e alla condivisione. Raramente si mangia da soli, e quasi mai in silenzio. Il cibo viene servito al centro del tavolo e condiviso, anche nei contesti più informali. Si parla, si scherza, si aggiungono ingredienti, si mescolano sapori. Non esistono gerarchie rigide tra le portate: il brodo può arrivare per primo o per ultimo, il piatto principale si fonde con i contorni, il confine tra antipasto e secondo non ha molto senso. È una cucina che invita alla partecipazione, non alla contemplazione; al gesto, non alla forma.

In tutto questo, Saigon gioca un ruolo centrale. È in questa città che la cucina del Sud si mostra nella sua massima espressione, e al tempo stesso si contamina, si reinventa, si sporca le mani con le tendenze del mondo. Ma prima di tutto resta una cucina profondamente radicata in ciò che la terra, l’acqua e il clima offrono. Una cucina agricola e acquatica, urbana e popolare, capace di raccontare il proprio mondo con una semplicità che nasconde, come spesso accade, una raffinata intelligenza.

Saigon coloniale: baguette, caffè e ristoranti alla francese

Quando nel 1859 le truppe francesi occuparono la città di Gia Định, gettarono le fondamenta di quella che nel 1862 sarebbe diventata ufficialmente Saigon, capitale della Cocincina francese e, più tardi, uno dei centri nevralgici dell’Indocina coloniale. Non era solo una conquista militare: era la proiezione di un’idea, di una missione civilizzatrice — come la chiamavano i francesi — che si sarebbe concretizzata anche nello spazio urbano, nell’architettura, nella cultura, e naturalmente nel cibo.

Saigon venne ridisegnata sul modello haussmanniano: larghi boulevard alberati, edifici in stile neoclassico, piazze, fontane, chiese e palazzi istituzionali. L’obiettivo era chiaro: costruire una “piccola Parigi d’Oriente”. Nacquero così luoghi emblematici come l’Hôtel Continental, aperto nel 1880 e frequentato da diplomatici, commercianti e giornalisti stranieri (tra cui Graham Greene, che proprio lì ambientò The Quiet American), o la Brasserie de l’Opéra, dove si beveva birra francese e si servivano ostriche importate, mentre fuori si mescolavano odori ben più intensi provenienti dai venditori ambulanti locali.

La cultura gastronomica coloniale si diffuse dapprima nelle zone riservate ai francesi — gli “europei” — ma col tempo iniziò a filtrare anche nella vita quotidiana della popolazione vietnamita, soprattutto nelle classi urbane in ascesa e tra coloro che lavoravano per l’amministrazione coloniale. Cuochi vietnamiti vennero formati alla cucina francese nelle grandi case borghesi e nei ristoranti dell’élite. Alcuni di loro, dopo l’indipendenza, aprirono ristoranti propri, dando origine a una vera e propria tradizione culinaria “alla francese” reinterpretata in chiave locale.

È in questo crocevia culturale che nacquero ibridi gastronomici ancora oggi centrali nella cucina vietnamita urbana. Il più celebre è senza dubbio il bánh mì, evoluzione tropicale della baguette francese, riempita con una combinazione di paté, affettati locali, sottaceti di carota e daikon, coriandolo fresco e a volte peperoncini. La baguette stessa fu adattata alle farine di riso disponibili localmente, diventando più leggera e più friabile rispetto all’originale parigina. Secondo alcune fonti, il panino cominciò a circolare negli anni Trenta, ma fu solo nel secondo dopoguerra che divenne un cibo popolare e diffuso, anche grazie al basso costo e alla sua versatilità.

Anche il caffè, introdotto in Vietnam dai missionari cattolici e poi coltivato su scala più ampia a partire dalla fine del XIX secolo nelle Highlands centrali, dove il caffè arabica e soprattutto robusta trovarono terreno fertile. Ma la cultura del caffè — il modo in cui lo si beve, lo si serve, lo si vive — si trasformò in qualcosa di profondamente vietnamita. Nelle strade di Saigon, tra le panchine in plastica e i tavolini bassi, nacque il cà phê sữa đá, miscela forte di robusta servita con latte condensato zuccherato e ghiaccio: una risposta intelligente alle difficoltà di conservazione del latte fresco in un clima tropicale. Le prime caffetterie all’occidentale comparvero già negli anni Venti, molte delle quali gestite da vietnamiti di origine cinese. Questi luoghi divennero presto punti di incontro per intellettuali, artisti, studenti e impiegati coloniali: si leggeva, si discuteva, si osservava.

I ristoranti francesi più raffinati si concentravano nei pressi dell’avenue Catinat (oggi Đường Đồng Khởi), considerata il salotto buono della città. Qui si trovavano locali con piatti classici come bœuf bourguignon, pâté en croûte, escargots, soufflé, accanto a reinterpretazioni locali che prevedevano l’uso di spezie vietnamite o il servizio con riso invece che con pane. Si cucinavano pot-au-feu con salsa di pesce, ragù con erbe del delta, e dolci che mescolavano le tecniche della pasticceria francese agli ingredienti locali, come il bánh flan cotto a vapore — la versione vietnamita della crème caramel.

Tra le figure meno conosciute ma fondamentali di questa fase vi furono i cuochi domestici (spesso donne), che impararono l’arte culinaria europea a servizio delle famiglie francesi. Le loro conoscenze si tramandarono poi in famiglia, o divennero la base per piccole imprese di ristorazione familiare. In molti casi, la contaminazione non fu unilaterale: i francesi finirono per apprezzare alcuni piatti locali, soprattutto per la freschezza delle verdure, la varietà delle erbe aromatiche e la leggerezza di alcune preparazioni, assai diverse dalla pesantezza della cucina metropolitana.

Non bisogna dimenticare che, sotto la superficie gastronomica, si muovevano anche tensioni profonde: razzismo istituzionale, disparità economiche, controllo culturale. Ma nonostante tutto, la cucina rimase uno dei terreni più fertili del dialogo — o quanto meno dello scambio. Gli ingredienti viaggiavano da una cultura all’altra, si adattavano, si trasformavano. Il colonialismo ha lasciato ferite storiche ancora aperte, ma anche alcuni elementi che, una volta “vietnamizzati”, sono diventati parte integrante di una nuova identità urbana.

Oggi, nei quartieri centrali di Saigon, si possono ancora trovare panetterie con nomi francesi, bistrot dove il menù alterna foie gras e phở, e caffetterie dal design rétro dove si serve il cà phê trứng, il caffè all’uovo — nato ad Hanoi, ma ormai adottato anche qui. Il passato coloniale non è un capitolo chiuso, ma una componente metabolizzata, reinventata, e riconsegnata con orgoglio a una modernità tutta vietnamita.

Saigon e la guerra del Vietnam: tra occupazione americana, conflitto e trasformazioni sociali

La guerra del Vietnam, nota ai vietnamiti come “guerra americana”, non fu solo uno dei conflitti più devastanti del XX secolo, ma anche un evento che trasformò radicalmente la società, l’economia e la cultura vietnamita. Saigon, capitale del Vietnam del Sud, fu il cuore di questa trasformazione: punto nevralgico dell’occupazione americana, simbolo della divisione del paese, teatro di tensioni politiche e sociali profonde che segnarono per decenni il tessuto urbano.

L’arrivo degli americani

A partire dalla metà degli anni Cinquanta e con crescente intensità negli anni Sessanta, Saigon vide una massiccia presenza americana, non solo militare ma anche civile. Alla fine degli anni Sessanta, oltre mezzo milione di soldati statunitensi erano presenti sul suolo vietnamita, con migliaia di funzionari civili, consulenti militari e operatori logistici che facevano di Saigon una sorta di capitale parallela della presenza americana nel Sud-est asiatico.

Questa presenza comportò cambiamenti urbani profondi: la costruzione di basi militari, ospedali, alloggi, club per soldati e funzionari, ristoranti in stile occidentale e locali notturni. Intere zone della città, come l’area intorno alla celebre via Tu Do (oggi Đường Đồng Khởi), divennero enclave occidentali, con bar, hotel e caffè destinati a una clientela americana o internazionale. Il conflitto creò anche una forte divisione sociale tra coloro che avevano accesso a questo circuito economico e chi, invece, restava ai margini.

Economia e società sotto pressione

L’afflusso di denaro e risorse americane portò a una crescita economica distorta, generando al tempo stesso ricchezza improvvisa e povertà estrema. Il mercato nero prosperava, con prodotti occidentali come carne in scatola, sigarette, Coca-Cola, whisky e cosmetici importati illegalmente dalle basi militari e rivenduti nelle strade. Questo fenomeno non fece altro che ampliare le disparità economiche già esistenti: chi poteva lavorare per o con gli americani godeva di privilegi, mentre gran parte della popolazione locale viveva una quotidianità fatta di inflazione crescente, precarietà e violenza.

Il cibo, in questo contesto, divenne una cartina al tornasole delle disparità sociali. Le mense militari americane e i locali che imitavano lo stile occidentale servivano bistecche, hamburger, birra importata e gelati; nel frattempo, le famiglie comuni lottavano contro la scarsità e l’aumento dei prezzi, consumando piatti semplici a base di riso spezzato, verdure economiche e zuppe diluite.

Vita quotidiana durante il conflitto

Durante gli anni più intensi del conflitto, soprattutto dopo l’offensiva del Tet del 1968, la vita quotidiana a Saigon si fece sempre più difficile. L’incertezza economica, i coprifuoco, i bombardamenti sporadici e gli attentati trasformarono la città in un luogo carico di tensione. Nonostante ciò, gli abitanti di Saigon mostrarono una resilienza straordinaria: mercati, venditori ambulanti e ristoranti continuarono a funzionare, spesso in condizioni di emergenza.

Il cibo giocava anche un ruolo sociale cruciale: cucinare, condividere e mangiare diventavano gesti di normalità, momenti di tregua nel caos. In quegli anni nacquero nuovi piatti o nuove versioni di piatti tradizionali, adattati alle circostanze: il già citato cơm tấm diventò uno degli alimenti più comuni, insieme al semplice cháo (porridge di riso), e al bánh xèo, una frittella farcita con pochi ingredienti economici ma saporiti.

R&R, svago e prostituzione: l’altro volto dell’occupazione americana

La massiccia presenza americana in Vietnam non portò solo basi militari, infrastrutture e nuovi consumi, ma diede vita anche a un’economia parallela meno visibile, ma altrettanto significativa. Come accaduto a Bangkok e in altre città asiatiche durante gli anni della guerra, la presenza dei soldati in licenza (le cosiddette “R&R”, Rest and Recreation, pause concesse per alleggerire lo stress del combattimento) alimentò lo sviluppo di una vera e propria industria legata al sesso e all’intrattenimento notturno.

A Saigon, bar, nightclub e locali di vario genere si moltiplicarono rapidamente intorno a zone come la già citata via Tu Do e nelle aree vicine ai quartieri militari. Questa economia informale generava un indotto enorme: ristoranti, taxi, hotel, sale massaggi e piccoli commerci che offrivano ogni genere di servizi ai soldati americani e al personale civile straniero. Ma naturalmente portava anche con sé aspetti problematici: sfruttamento, violenza, corruzione e un impatto duraturo sulla società vietnamita, specialmente sulle donne coinvolte, spesso provenienti dalle aree rurali più povere o dai quartieri marginali della città.

Per molti soldati occidentali, queste esperienze divennero un ricordo indelebile, idealizzato o traumatizzante, alimentato successivamente da film come Full Metal Jacket di Kubrick, libri e racconti di veterani. Nella cultura popolare occidentale, la figura della donna vietnamita – spesso ridotta allo stereotipo della prostituta o della compagna occasionale – contribuì a creare un’immagine deformata e riduttiva del Vietnam e delle sue donne.

Oggi, pur con tutta la distanza storica e le trasformazioni sociali intervenute, è importante ricordare che questo retaggio non è stato solo frutto della guerra o della povertà, ma anche delle dinamiche di potere e delle diseguaglianze create da quel conflitto. Affrontare l’argomento senza morbosità significa restituire dignità alle storie individuali, comprendendo meglio le complessità sociali e culturali che la guerra ha lasciato in eredità, anche nei suoi risvolti più dolorosi e nascosti.

Le conseguenze della guerra e il retaggio americano

La caduta di Saigon, il 30 aprile 1975, segnò la fine ufficiale della guerra, ma le conseguenze del conflitto sarebbero state molto più durature. Il Vietnam unificato sotto il governo comunista affrontò enormi difficoltà economiche e sociali. Migliaia di persone fuggirono dal paese (i cosiddetti “boat people“), mentre chi restò dovette adattarsi a un regime socialista che guardava con diffidenza ogni influenza occidentale. Tuttavia, il retaggio americano non scomparve mai del tutto: rimase nella memoria collettiva, nelle relazioni familiari (i figli delle relazioni miste, spesso stigmatizzati dalla società postbellica), nella cucina urbana e nelle abitudini quotidiane.

Alcuni aspetti della cultura americana — come la passione per il cibo da strada rapido e pratico, la diffusione dei cibi confezionati o l’uso di conserve — furono integrati nella vita quotidiana, anche durante gli anni difficili del dopoguerra. Il caffè freddo in lattina, i prodotti istantanei, i panini imbottiti di carne e sottaceti, pur essendo stati introdotti in circostanze complesse, divennero parte integrante del panorama gastronomico urbano del Sud, specialmente di Saigon.

Un conflitto che ha cambiato due nazioni

Per gli Stati Uniti, la guerra del Vietnam significò non solo una sconfitta militare e politica, ma un trauma culturale profondo che segnò generazioni intere, scatenando movimenti pacifisti, rivolte studentesche, un ripensamento critico della politica estera e della stessa identità nazionale americana.

In Vietnam, il trauma fu altrettanto profondo, ma vissuto su scala ancora più vasta e pervasiva: milioni di morti, distruzioni enormi, famiglie divise, terre rese incoltivabili per decenni dagli agenti chimici come il famigerato Agente Arancio. A Saigon, però, rimase anche qualcos’altro: una tenace volontà di sopravvivere, di reinventarsi continuamente, di mescolare memoria e innovazione. La cucina urbana, forse più di ogni altro aspetto, testimonia oggi questa capacità di trasformare l’esperienza della guerra in un patrimonio culturale straordinariamente complesso e vivo.

Dopo il 1975: tra socialismo reale e resistenza quotidiana

Con la caduta di Saigon e la fine della guerra, il Vietnam fu ufficialmente riunificato sotto il governo comunista di Hanoi. La città fu ribattezzata Ho Chi Minh City, in onore del leader rivoluzionario scomparso nel 1969. Ma il nome non cancellò l’identità complessa della vecchia Saigon, né tantomeno il suo spirito: la città rimase il principale centro economico del paese, ma dovette affrontare una trasformazione profonda — politica, culturale e alimentare.

Nei primi anni post-bellici, il nuovo regime cercò di imporre una rigida economia pianificata: i grandi ristoranti furono nazionalizzati, molte attività private vennero chiuse, il commercio fu regolato attraverso tessere annonarie, e la proprietà collettiva divenne la norma. L’obiettivo era creare un sistema egualitario, ma nella pratica le difficoltà si moltiplicarono: scarsità cronica, inflazione, burocrazia asfissiante e una rete logistica danneggiata dalla guerra resero la vita quotidiana estremamente complicata.

Il cibo tornò a essere un bene precario e disuguale. Alcuni prodotti di base, come riso, zucchero o olio, venivano distribuiti tramite razioni, ma erano spesso insufficienti. Per molti, sopravvivere significava affidarsi a reti informali, alla famiglia allargata, alla creatività domestica. Le cucine si adattarono di nuovo: si tornò ai piatti poveri, alle erbe coltivate sul balcone, alle ricette inventate con poco o nulla.

Nonostante la sorveglianza e i divieti, il mercato nero proliferò. Alcuni degli ingredienti legati al periodo coloniale o americano — latte condensato, caffè, farina di grano, carne in scatola — continuarono a circolare in modo clandestino, spesso importati illegalmente dalla Cambogia o via nave. Anche la cultura gastronomica si trasmise in forma sotterranea: chi aveva lavorato nei ristoranti francesi o americani continuava a cucinare per occasioni private, matrimoni, piccole celebrazioni. Si mangiava in casa, si condivideva tra vicini, si imparava a fare con poco.

È in questi anni che la cucina vietnamita inizia ad assumere quella duplice natura che ancora oggi la caratterizza: da un lato, la semplicità forzata e l’attenzione per la materia prima (che derivano dalla necessità); dall’altro, la raffinatezza ereditata dalla storia, che sopravvive grazie alla memoria e alla trasmissione orale.

Saigon, pur ufficialmente allineata all’ideologia del Nord, non perse del tutto la propria anima mercantile. Nei vicoli e nei quartieri popolari, piccoli mercati informali e cucine da strada continuarono a operare sotto traccia, offrendo cibo caldo, verdure fresche, dolci di riso e brodi fumanti. Erano luoghi di socialità, di scambio, di resilienza. Una rete urbana che sfuggiva al controllo statale ma teneva insieme la città.

Il cambiamento vero arrivò solo alla fine degli anni Ottanta, con l’avvio della politica del Đổi Mới (“rinnovamento”), che segnò l’apertura graduale all’economia di mercato. Da quel momento, ristoranti privati, caffetterie, attività artigianali e mercato libero tornarono a fiorire. Ma senza quel lungo periodo di resistenza silenziosa, Saigon non sarebbe sopravvissuta nella sua forma attuale. Il cibo — ancora una volta — fu il filo che tenne insieme la memoria, l’identità e la possibilità di ripartire.

Il boom economico e la nuova scena gastronomica

Con l’avvio delle riforme del Đổi Mới alla fine degli anni Ottanta, il Vietnam si è progressivamente aperto al mercato e agli investimenti stranieri. Saigon — o meglio Ho Chi Minh City, come da toponimo ufficiale — è tornata a essere la città più dinamica del paese: polo finanziario, nodo commerciale, capitale informale della cultura contemporanea vietnamita. E, naturalmente, centro gastronomico inarrestabile.

Street food, mercati notturni e cultura del cibo urbano

Nel corso degli anni Duemila, la città ha conosciuto un vero e proprio boom economico: quartieri nuovi, centri commerciali, coworking, catene internazionali e un costante flusso migratorio interno hanno trasformato l’aspetto urbano e il tessuto sociale. Eppure, nonostante la modernizzazione spinta, la cultura del cibo di strada è rimasta il cuore pulsante della vita quotidiana.

Passeggiando tra i quartieri popolari o residenziali si incontrano file di bánh mì caldi, zuppe phở servite in pochi minuti, polpette alla griglia, involtini fritti, dolci di riso e frutta tropicale pronta da mangiare. I mercati notturni, come quelli di Ben Thanh, Ho Thi Ky o Ba Chieu, sono veri e propri festival urbani del gusto: colori, odori, piatti cucinati al momento e un’umanità che si muove instancabile tra sgabelli di plastica e ciotole fumanti.

Il cibo non è solo nutrimento o piacere, ma un modo per abitare la città, per riconoscersi, per condividere storie. Ogni banco ha una sua clientela fedele, una sua specialità, un legame affettivo tramandato da generazioni. E ogni giorno, accanto ai piatti tradizionali, compaiono nuove combinazioni, ispirate da Instagram, dai viaggi, dai palati sempre più curiosi dei giovani saigonesi.

Fusion locale-internazionale e ritorno alle radici

La crescita economica ha permesso anche lo sviluppo di una nuova scena gastronomica urbana, in equilibrio tra apertura internazionale e riscoperta della tradizione. Giovani chef, molti dei quali formati all’estero, stanno reinterpretando i sapori vietnamiti con tecniche moderne e una nuova attenzione per la qualità degli ingredienti. Ristoranti come Anan Saigon, premiato tra i migliori dell’Asia, propongono piatti che mescolano street food e cucina d’autore, sperimentando con successo forme di alta cucina ispirate ai sapori locali.

Accanto a questi progetti più ambiziosi, è cresciuta anche una generazione di caffetterie, bistrot e locali indipendenti che lavorano sul concetto di “comfort food viet”: cucina semplice, ma con un’estetica contemporanea, prodotti selezionati, attenzione all’ambiente e presentazioni curate. La scena vegan e plant-based è in forte espansione, spesso ispirata alla cucina buddhista, mentre il fermento intorno al caffè specialty ha trasformato il classico cà phê sữa đá in un mondo di torrefazioni artigianali, brewing di precisione e cultura slow.

Non si tratta solo di moda: c’è un ritorno consapevole alle radici, un desiderio diffuso di valorizzare il patrimonio agricolo, la biodiversità vietnamita, le tecniche di fermentazione tradizionali, le varietà locali di pesce, riso, erbe e verdure. Il nước mắm, la celebre salsa di pesce, viene oggi prodotto in versioni artigianali di alta qualità, rivalutato anche nei contesti più raffinati.

Covid, resilienza e nuova vitalità urbana

Come molte città asiatiche, anche Saigon ha vissuto con durezza le conseguenze della pandemia da Covid-19. Dopo una prima fase in cui il Vietnam era stato indicato come modello per la rapidità e l’efficienza nella risposta sanitaria, la situazione cambiò drasticamente nel 2021, quando nuove ondate colpirono duramente la capitale del Sud. Lockdown severi, coprifuoco, restrizioni agli spostamenti e chiusure prolungate dei mercati e dei ristoranti misero in crisi l’intero ecosistema gastronomico urbano.

Saigon, città che vive letteralmente in strada — tra carrelli di bánh mì, sgabelli di plastica, mercati all’aperto e cucine condivise — si trovò improvvisamente paralizzata. Intere famiglie di venditori ambulanti rimasero senza reddito, molte attività chiusero definitivamente, e una parte significativa della forza lavoro del settore fu costretta a tornare nelle province d’origine.

Eppure, anche in questo scenario drammatico, la risposta fu sorprendente per energia e creatività. In poco tempo si sviluppò una rete diffusa di cucine domestiche, ghost kitchen e servizi di delivery gestiti via social network o app locali. Cuochi, giovani imprenditori e famiglie si reinventarono, trasformando balconi e cortili in piccole postazioni di produzione. Il concetto stesso di ristorazione cambiò: più agile, più intimo, più radicato nel tessuto sociale.

Nel periodo post-pandemico, Saigon è tornata a pulsare con una vitalità nuova. Accanto alla riapertura di molti locali storici, si è assistito a un vero e proprio fermento gastronomico: nuove aperture, bistrot di quartiere, progetti di cucina sostenibile, ritorno alle ricette familiari reinterpretate in chiave contemporanea. L’attenzione si è spostata sulla qualità degli ingredienti, sulla filiera corta, sull’identità locale.

Un segnale importante di questo rinnovamento è la crescita della scena delle birre artigianali locali. Un tempo dominio quasi esclusivo delle lager industriali, il panorama brassicolo della città ha visto nascere numerosi microbirrifici — come Heart of Darkness, East West Brewing, Pasteur Street Brewing Co. — che propongono birre ispirate agli ingredienti vietnamiti: zenzero, caffè robusta, frutti tropicali, lemongrass, pepe di Phu Quoc. Questi luoghi sono diventati veri centri culturali urbani, dove si incontrano expat, giovani vietnamiti, artisti, musicisti e appassionati di gastronomia.

Anche il turismo ha ripreso vigore, attirato da una scena gastronomica ibrida e vibrante, che mescola street food d’autore, laboratori culinari, esperienze immersive nei mercati e nuove forme di ospitalità urbana. Saigon è diventata una meta per chi cerca autenticità senza rinunciare alla sperimentazione.

La pandemia ha lasciato cicatrici, ma anche spinto la città a reinventarsi ancora una volta, con lo stesso spirito indomito che la attraversa da secoli. E il cibo — come sempre — è stato il primo linguaggio a raccontarlo.

Saigon come capitale creativa della cucina vietnamita

Se Hanoi rappresenta la memoria storica e la compostezza formale della nazione, Saigon è il laboratorio dove la cucina vietnamita sperimenta, muta, si contamina e si rinnova. Non è soltanto una questione di quantità o varietà di ristoranti: è un’attitudine, un’energia diffusa che attraversa l’intera città — dai vicoli più anonimi ai rooftop più glamour, dalle bancarelle ai concept restaurant.

La capitale economica del paese è anche il cuore pulsante di una scena gastronomica in costante fermento, alimentata da giovani chef, imprenditori, appassionati di cucina e designer che si confrontano quotidianamente con il passato, ma senza nostalgia. Al contrario: lo reinterpretano, lo destrutturano, lo riportano alla luce con tecniche contemporanee e sensibilità internazionali. È in questa tensione continua tra radici e futuro, memoria e invenzione, che Saigon ha costruito la sua identità gastronomica postmoderna.

Molti dei protagonisti di questa scena hanno vissuto o studiato all’estero: tra Tokyo e Melbourne, Parigi e Seoul, Berlino e New York. Al loro ritorno, portano con sé non solo tecniche e stili, ma anche una nuova consapevolezza culturale: il desiderio di valorizzare ingredienti locali, antiche varietà di riso, pesci dimenticati, erbe selvatiche, tecniche di fermentazione tradizionali, ricette contadine riscoperte nei racconti delle nonne. Saigon diventa così un crocevia tra terroir vietnamita e linguaggio gastronomico globale.

Questa spinta innovativa ha dato vita a ristoranti capaci di dialogare con il mondo: cucine che propongono phở destrutturato, bánh xèo servito come tapas, cocktail con infusi di citronella e nuoc mam, piatti vegani ispirati al buddismo Mahāyāna o dessert che combinano frutta tropicale e pasticceria francese. Accanto ai ristoranti premiati e internazionali, fioriscono laboratori gastronomici, cucine condivise, supper club, pop-up markets che trasformano il cibo in un linguaggio creativo fluido, capace di parlare anche di sostenibilità, artigianalità, comunità.

Il fermento non si limita alla cucina in senso stretto: coinvolge anche il design, la comunicazione, l’estetica dell’esperienza gastronomica. Saigon è una città in cui lo stile conta, ma non come apparenza sterile: piuttosto come forma di racconto, di riconoscimento, di legame tra passato e presente. Si va a mangiare non solo per nutrirsi, ma per assistere a una narrazione, per partecipare a un rito urbano condiviso, per sperimentare nuovi linguaggi.

Questa dimensione creativa si esprime anche nei luoghi più informali: bancarelle con impiattamenti impeccabili, food truck nei parcheggi dei coworking, festival gastronomici nei cortili delle gallerie d’arte. Non esiste una separazione netta tra “alto” e “basso”, tra tradizione e innovazione: ogni spazio può diventare una scena, ogni piatto una dichiarazione d’intenti.

In questo contesto, Saigon ha conquistato un ruolo guida: è il punto di riferimento per chi cerca un Vietnam giovane, consapevole, connesso ma radicato. Una città che ha fatto del cibo non solo un tratto identitario, ma uno strumento di dialogo culturale, di emancipazione professionale e di espressione collettiva. E che, con la stessa naturalezza con cui serve un bánh mì o un amuse-bouche al tamarindo, ci ricorda ogni giorno che il gusto è una forma di pensiero.

Il culto del caffè e la Saigon che cambia

Il caffè in Vietnam — e in particolare a Saigon — è molto più di una bevanda. È una forma di socialità, un rituale quotidiano, una dichiarazione d’identità urbana. In una città che cambia rapidamente, dove grattacieli e motorini convivono con pagode e palazzi coloniali, il caffè è uno degli elementi più stabili, trasversali e rappresentativi del modo in cui i vietnamiti abitano il proprio tempo.

Dal cà phê sữa đá alle caffetterie boutique

Il cà phê sữa đá, con il suo aroma denso e la dolcezza del latte condensato, è un’istituzione: un bicchiere semplice, preparato in pochi minuti con un filtro in metallo (il classico phin) e sorseggiato lentamente su uno sgabello di plastica, mentre la vita cittadina scorre a pochi centimetri di distanza. C’è chi lo beve prima di andare al lavoro, chi a metà mattina, chi nel pomeriggio, e chi ne fa una scusa per restare seduto ore a chiacchierare.

Ma da almeno quindici anni, accanto a questo classico intramontabile, è esplosa una scena del caffè di nuova generazione: caffetterie boutique, torrefazioni indipendenti, baristi-artigiani, design curatissimo e tecniche di estrazione sperimentali. Giovani imprenditori e creativi — spesso con esperienze internazionali — hanno dato vita a una cultura del caffè che non ha nulla da invidiare a quella europea o australiana, ma che conserva un’identità vietnamita ben radicata.

Oggi si può sorseggiare un cold brew alla citronella in un loft industriale, un espresso da single origin di robusta fermentato in barrique, oppure un cappuccino al cocco sotto un pergolato in stile coloniale. Luoghi come The Workshop, La Viet, Katinat, Bosgaurus o %Arabica (arrivato da Kyoto ma subito adottato con entusiasmo) sono solo alcune delle tappe obbligate per chi vuole esplorare il lato creativo e cosmopolita di Saigon.

Una sorpresa per chi arriva: caffè e città che non dorme

Per uno straniero che arriva in città per la prima volta, una delle sorprese più memorabili è questa: la sera, invece dei pub o dei bar alcolici, sono le caffetterie a riempirsi di vita. Giovani seduti in cerchio, coppie, studenti con il laptop, musicisti che improvvisano in angoli nascosti, famiglie intere che si rilassano. Non è raro trovare locali ancora pieni dopo le 22 o le 23, con luci soffuse, playlist ricercate e una ritualità lenta che ricorda i café francesi di un altro secolo — ma senza l’ombra della malinconia, piuttosto con un senso di fierezza e appartenenza.

In un paese dove il consumo di alcol è socialmente accettato ma non dominante, il caffè ha assunto il ruolo di bevanda della modernità urbana: offre concentrazione senza eccessi, convivialità senza barriere, energia senza rumore. Le nuove generazioni lo hanno adottato con entusiasmo, facendone un simbolo della propria visione del mondo: consapevole, creativa, radicata ma aperta.

L’evoluzione sociale in un bicchiere

Il successo delle caffetterie è anche lo specchio di una trasformazione più ampia. Questi luoghi sono diventati hub sociali, culturali e professionali: coworking spontanei, showroom temporanei, gallerie d’arte informali, spazi d’incontro intergenerazionali. Il design degli interni è spesso curatissimo, con richiami alla tradizione vietnamita reinterpretati in chiave minimalista o tropicale, tra legni scuri, lampade in bambù e oggetti di artigianato locale.

Anche la narrazione attorno al caffè vietnamita si è evoluta: da commodity esportata in grandi quantità a prodotto d’eccellenza da valorizzare, raccontare, trasformare in leva culturale e commerciale. Saigon, in questo contesto, si pone come il centro di una nuova coscienza gastronomica nazionale, dove il gusto diventa racconto, e il racconto diventa comunità.

In definitiva, bere un caffè a Saigon oggi — sia in una viuzza del distretto 3, sia in un attico del distretto 1 — significa partecipare a un rito collettivo che unisce generazioni e visioni, passato e futuro, riti popolari e creatività urbana. E forse proprio qui, in un semplice bicchiere, si può leggere meglio di mille statistiche la trasformazione di una città che ha fatto della resilienza uno stile di vita.

Saigon oggi: resilienza, memoria e contaminazione

Il XXI secolo ha restituito a Saigon il ruolo che storicamente le è appartenuto: quello di motore creativo, crocevia culturale e cuore pulsante di un paese in trasformazione. La città ha attraversato guerre, carestie, transizioni ideologiche e globalizzazione. E oggi, più che mai, si presenta come un luogo che non rinnega il proprio passato, ma lo rielabora in una forma nuova, ibrida, dinamica.

Dalla fame alla food culture

In pochi decenni, Saigon è passata da città provata dalla scarsità — dove anche un uovo fritto poteva rappresentare un pasto festivo — a metropoli orgogliosa della propria food culture urbana. Questa evoluzione non è stata solo economica, ma anche culturale: si mangia meglio perché si ha più possibilità, certo, ma anche perché il cibo è diventato un linguaggio consapevole, una forma di narrazione personale e collettiva.

Oggi si può mangiare phở a ogni angolo, ma anche assistere a festival gastronomici, showcooking di chef locali, mostre dedicate alla cultura alimentare, percorsi di food-storytelling legati ai quartieri e alle comunità. Il passato gastronomico non è stato dimenticato: è stato incorporato, esplorato, reinventato. E così, ciò che un tempo era fame, oggi è memoria; ciò che era necessità, è diventato scelta; ciò che era quotidianità, è diventato identità condivisa.

La scena artistica: dalla tradizione alla modernità

Questa capacità di integrare tradizione e contemporaneità si riflette anche nella scena artistica saigonese, che negli ultimi vent’anni ha conosciuto una crescita straordinaria. Tra gallerie indipendenti, spazi espositivi nati in vecchie fabbriche riconvertite, studi di giovani creativi, street art e festival interdisciplinari, l’arte ha invaso la città, rendendola uno dei centri culturali più attivi del Sud-est asiatico.

Artisti visivi, performer, illustratori e designer dialogano apertamente con la storia del paese, con le memorie familiari e con le tensioni del presente. I linguaggi sono ibridi, contaminati, come la città stessa. Non è raro trovare mostre dedicate alla vita dei venditori ambulanti, alla cultura del cibo, alla dimensione sonora dei mercati, o performance ispirate ai rituali buddhisti e alle forme del teatro tradizionale vietnamita.

Molti spazi artistici — come The Factory Contemporary Arts Centre, Salon Saigon o MoT+++ — ospitano eventi dove il confine tra mostra, cena e concerto si dissolve. L’arte qui non è mai solo contemplativa: è partecipata, integrata nella quotidianità, spesso accompagnata da un piatto, una birra artigianale, una conversazione su una terrazza. Anche la fotografia, la moda e il design di prodotto si stanno sviluppando a un ritmo sorprendente, facendo di Saigon una piattaforma viva e imprevedibile di espressione urbana.

Una città che si racconta tra rumori di motorini e ciotole fumanti

Saigon non è una città che si lascia fotografare in posa. È mobile, irregolare, sfuggente, piena di contraddizioni ma anche di energie sincere. È il suono dei motorini che si mescolano al canto di un venditore ambulante, il profumo di aglio fritto che invade un cortile, una ciotola di zuppa bollente servita su un marciapiede mentre il traffico scorre lento.

Qui tutto è movimento e stratificazione: architettonica, sociale, culturale. Il passato francese, l’epoca coloniale, la guerra, l’America, il socialismo, il capitalismo, l’Asia e l’Occidente. Tutto convive, spesso in modo caotico, ma sempre con una forma di armonia interna che solo chi ci vive riesce a cogliere. “Dicono che quando si arrivi in Vietnam bastino pochi minuti per capire quasi tutto, ma quello che resta bisogna viverlo.” Questo scriveva Graham Greene nel già citato libro L’americano tranquillo e valeva allora esattamente come oggi. Il cibo, l’arte, il caffè, le luci notturne, la creatività spontanea e l’informalità diffusa sono gli strumenti con cui Saigon racconta se stessa. Una città che non vuole essere perfetta, ma vera. E che, proprio per questo, riesce a incantare chi è disposto a lasciarsi sorprendere.

Leggere Saigon attraverso il cibo

Capire Saigon attraverso il cibo significa addentrarsi in una narrazione fatta di strati, di ferite e di rinascite, di sapori che resistono e mutano, di gesti quotidiani che raccontano intere epoche. Ogni piatto è un palinsesto: racconta della fame e dell’abbondanza, della colonizzazione e della rivolta, della memoria familiare e del desiderio di futuro.

Saigon è una città che ha imparato a sopravvivere reinventandosi, e il cibo ne è la prova più tangibile. Dai vicoli affollati dove ribolle il brodo del phở, alle dark kitchen delle case private trasformate in ristoranti, dalle torrefazioni di caffè specialty alle gallerie d’arte che ospitano cene-performance, tutto in questa città parla di trasformazione. Non di rottura, ma di contaminazione fertile, dove nulla si perde, ma tutto si rimescola.

E forse è proprio in una ciotola di zuppa mangiata su uno sgabello di plastica, o in un espresso filtrato a mano con note di frutto del drago e cacao, che si può cogliere il senso più profondo di Saigon: una città che non ha bisogno di essere capita del tutto per essere amata, perché si rivela piano, nel gesto di chi serve, nel sorriso di chi accoglie, nell’orgoglio silenzioso di chi cucina.

In una realtà che cambia a ogni angolo, dove le certezze si sciolgono al sole come il ghiaccio nel cà phê sữa đá, resta una verità semplice: per conoscere davvero Saigon, bisogna sedersi a mangiare. E ascoltare.

Mister Godfrey

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